mercoledì 24 novembre 2010

Il valore educativo della lingua nella professione docente

Dario Costantino

Il primo “filosofo del linguaggio” dei tempi antichi, Antistene (1) (quello del celebre motto, in opposizione all’idealismo platonico, «vedo il cavallo, non la cavallinità») – secondo V. Goldschmidt – diceva: “All’inizio dell’educazione sta la comprovata riflessione sui nomi”. Egli era per una forma di nominalismo, per cui la conoscenza del mondo materiale era limitata al puro nome, il quale, unico e specifico per ciascun oggetto, vietava di formulare predicazioni, meglio: di esprimere giudizi. Allievo di Gorgia e discepolo di Socrate negò l’oggettività esistenziale del concetto socratico, riducendolo a soggetivo prodotto della riflessione umana sulle cose esterne, e disgregando il valore dell’idea platonica.
Come i nomi sono il cuore della lingua, così la lingua è il cuore dell’insegnamento. O meglio: la lingua è lo strumento principale che i do-centi usano per il loro lavoro. Conoscere a fondo i propri strumenti è la prima regola per ogni professionista serio.
Molti docenti mancano di quella sicurezza, che deriva da una meta-cognizione profonda sul significato del proprio agire, di quella competenza che li rende “docenti esperti”, cioè che-sanno-quello-che-fanno. La lingua è strumento educativo per gli allievi e tanto più ne è chiaro l’uso, tanto più incisiva né è l’azione educativa. Per prima cosa e più grave, molti professionisti dell’insegnamento non conoscono a fondo questo “strumento di tutti gli strumenti”(2) e la sua prestazione mediativa (oscillante tra il dis-cernĕre e il dis-tinguĕre), non sono consci di essere “configuratori” della cultura del nostro tempo.
Eugen Coseriu saggiamente dice: [la lingua] “è la forma (Gestaltung) dell’umana esperienza. Si tratta però di una forma o strutturazione che non consegue a nessuna limitazione o linea di demarcazione che sia già data prima della lingua stessa. In linea di principio la formazione potrebbe anche essere completamente diversa, e in realtà lingue diverse rappresentano strutturazioni differenti di significato. Sicché le singole lingue non sono da interpretare come semplici diverse nomenclature materiali relative alle cose date, ma piuttosto come griglie di senso grazie alle quali si organizza in modo diverso il mondo dell’esperienza”(3) .
Il buon insegnante deve essere non solo un abile “operatore linguista”, ma anche un esperto “programmatore linguista”, cioè deve usare la lingua al meglio delle sue possibilità e potenzialità espressive. Egli deve conoscere il processo attraverso il quale organizza il mondo dell’esperienza, che poi trasmetterà ai discenti, che sono a lui affidati. Il vero insegnante deve essere un logico (un esperto del linguaggio logico) che, però, quasi antinomicamente, sappia sfruttare in pieno la funzione del metaforico, che è di per sé insita nel linguaggio (o quantomeno possibile)(4) . Deve avere una “cassetta degli strumenti linguistici” quanto più diversificata possibile, che non tema di riparare i guasti dei paradossi che spesso la lingua, nella sua funzione mediativa, è costretta ad affrontare.
Si è urlato a pieni polmoni, e da più parti, che la nostra è la “società della comunicazione”(5).
Si immaginava che i libri sarebbero diventati solo “un brutto ricordo” e la scrittura sarebbe stata sbaragliata dalla velocità di immagazzinamento di dati da parte dei nuovi microchips. La globalizzazio-ne, oggi più che mai, non è una tematica esclusivamente di interesse poli-tico ed economico, ma è diventata una delle chiavi di interpretazione e definizione della cultura del XX e XXI secolo. Ha cambiato l’essenza stessa delle attività economiche e politiche, ha avuto concreti effetti sul piano intellettuale e culturale, ha profondamente mutato il nostro modo di essere uomini. Ha anche trasformato ab imis l’essenza stessa di alcune discipline, sia nel loro fondamento epistemologico che nelle pratiche attuative; ha ridefinito alcune professioni già esistenti, creando in diversi ambiti di attività lavori del tutto nuovi. Per questo è oggi necessario creare un ambiente formativo attuale e specifico.
Questa situazione costituisce una sfida educativa alle istituzioni forma-tive (scuole e università). I giovani sono chiamati a operare negli ambiti toccati dalla globalizzazione e ad avviarsi alle “nuove professioni”. Essi perciò devono essere in grado di ricomporre il puzzle educativo, che, tes-sera dopo tessera, la scuola ha costruito con loro durante il percorso edu-cativo/formativo prescritto per legge.
Si opera in una società in cui tutte le invenzioni tecnologiche più avan-zate, dal telefonino (con i suoi SMS) all’ultramoderno, ultratecnologico iPad (6) con i suoi testi (sfogliabili con il polpastrello di un dito), non sono al-tro se non “parola registrata”, che è, comunque, destinata a rimanere (e a questo deve il suo successo). La “parola registrata” si chiama memoria, anche nei media supertecnologici della comunicazione, proprio come pensavano gli antichi. Gli antichi Greci dicevano che Memoria (Mnemosýne) fosse la madre di tutte le Muse, compagne di un dio potente come Apollo, che sovrintendevano e proteggevano i poeti, in pratica – secondo la mentalità antica – i “prìncipi del linguaggio”. Addirittura gli antichi Greci pensavano che il poeta, quando componeva, fosse “invasato”, parlava la lingua degli dei, cioè diventava egli stesso uno «strumento» del dio, che insegnava agli uomini, diventava la “voce del divino”.
Ma, in maniera del tutto particolare, sempre gli stessi Greci pensavano che la memoria fosse anche la “matrice” del pensiero in generale (ne è prova il fatto che “la perdita di memoria” fosse considerata “la perdita del pensiero” e di conseguenza anche dello spirito). Era cognizione comune che l’anima, cioè «il soffio vitale», fosse proprio come una tavoletta di ce-ra su cui si annotavano impressioni e pensieri. Platone, a differenza di So-crate, riteneva acclarato per sempre che conoscere è ricordare; la scrittura è un danno, perché “atrofizza” la memoria umana, che, pigra, tende ad affidarsi a “quella mente estesa” (7) che è il testo scritto; esistono due tipi di scrittura, interna ed esterna, la prima, che noi tutti abbiamo nella testa è la vera scrittura, mentre la seconda, al di fuori della nostra testa, è inferiore, degradata, falsa, inaffidabile. Ma Platone affermava con forza l’utilità per i giovani di approcciare alla sua scuola invece di studiare sui libri (cioè sui rotoli di papiri o sulle tavolette) come pretendevano i sofisti. E non si deve considerare questa querelle tutta interna a due Wel-tanschauungen opposte, a due scuole di formazione diverse, ma si deve analizzare in maniera più complessa e multilaterale. È l’idea insita nella testa di antichi e moderni, che dice che i contenuti più importanti si manifestano meglio con la parola, vivente e animata, piuttosto che con la lettera, esterna e fredda (8).
La scrittura ha trionfato. Soprattutto per motivi pratici (ed è questo che i docenti devono tenere saldo). Innanzitutto la scrittura è meno invasiva della parola, anche perché non è “contemporanea” come la parola. Non a caso Platone, per svalutare la scrittura esterna, insisteva sui rapporti tra scrittura e memoria. La scrittura esterna, però, presentava due vantaggi incalcolabili rispetto alla scrittura interna, cioè quella nell’anima: la visibilità/accessibilità pubblica (nessuno può leggere nella mia anima, ma tutti possono leggere un giornale, libri ecc.); la capacità della scrittura esterna di sopravvivere al suo creatore (se muoio, anche la mia anima nel migliore dei casi trasmigra, portandosi dietro “la mia scrittura interna”, ma i testi scritti sono là, e resistono fin quando dura il materiale su cui sono installati).
Scrittura è qualsiasi forma di registrazione. Perciò, ovunque, nel mon-do, siamo circondati da memorie e da sistemi di registrazione. Addirittura, senza registrazione, la comunicazione sarebbe futile (le scommesse, gli incarichi, le promesse, il denaro, i contratti, chi li accetterebbe, o stipulerebbe, oralmente?).
Allora, con buona pace di Platone, dobbiamo rassegnarci ad accettare che produciamo atti che hanno valore solo se scritti, e solo iscritti acquisi-scono il potere che conosciamo, dalle firme che decidono un armistizio tra due nazioni, alla stipula di un muto bancario, alla sottoscrizione di una polizza vita.
È chiaro, allora, che un insegnante – specialmente nella scuola secon-daria di primo e secondo grado – quando programma la sequenza dello svolgimento delle sue lezioni, organizza e seleziona i contenuti del suo docēre non può prescindere dalla competenza linguistica dei due poli della trasmissione, l’emittente e il ricevente. I due poli, poi, parlano effettivamente la stessa lingua? Oppure solamente lo credono?
Non si legge più o, comunque, lo si fa meno di prima; non si trova più la concentrazione e la volontà di farlo. Solo la parola esalta e rende possibile l’emozione dell’ascolto e la concretezza della comunicazione. La professione docente deve prendere atto dei profondi mutamenti sociali avvenuti nel nostro mondo ed essere interprete educativo autentico e dialetticamente sintono alle giovani leve, per meglio esercitare la propria azione educativa.
Interpretare il cambiamento, flettersi alle reali esigenze della società e dei suoi bisogni educativi, questo è il must della professione docente. Si parla oggi di «programmazione per competenze» – che si inserisce nel complesso generale della “idea” di conoscenza/competenza che viene fuori dalla Riforma (in realtà, solo un Riordino) Gelmini – nei due segmenti dell’istruzione, di cui abbiamo parlato. Si prevede una stretta collaborazione tra docente della lingua madre dell’allievo (cioè, nel nostro caso, il docente di materie letterarie in lingua italiana) e tutti gli altri docenti, che, comunque, attingono sempre alla “fonte-lingua” per trasmettere i loro saperi. L’insegnante, da persona colta, deve calibrare il suo linguaggio sulle competenze reali degli allievi. Niente verbosità, stile baroccheggiante nell’esposizione dei concetti, arzigogoli, ma semplicità, schiettezza, nettezza (che non vogliono dire povertà di stile e lin-guaggio!).
Dal canto loro, gli allievi dovranno essere portati obbligatoriamente sulla soglia della “triplice competenza d’analisi”, cioè dovranno sapere sciogliere tutti i nodi linguistici – anche i più difficili – legati a un reale uso dello strumento/lingua: analisi approfondita della fonologia, della morfo-logia e della sintassi della L1. Questa è la base di partenza che ogni serio “professionista dell’insegnamento” a scuola deve preparare con i suoi al-lievi, sempre attingendo alla sua “cassetta degli strumenti”. Solo così la relazione docente/discente, il rapporto insegnamento/apprendimento non saranno una comunicazione paragonabile a quella di un muto che, per forza, si è messo in testa di urlare delle nozioni a un sordo.
Educare o rieducare linguisticamente vuol dire far nascere e crescere, nei docenti prima e nei discenti dopo, un’attenzione concreta a ciò che si dice e come lo si dice.
La lingua è un organismo vivente, un work in progress, che identifica popoli, culture, essenze ed è strumento fondamentale di incontro e scambio tra uomini. Se il linguaggio è criptico, sconnesso, avulso da un comune dizionario informativo, la comunicazione diventa una babele linguistica, in cui nessuna crescita è possibile. Oggi educarsi e rieducarsi alla correttezza linguistica vuol dire usare un’espressione equilibrata e articolata, che rispecchi, come è giusto nella lingua, l’essenza identitaria dei singoli e del gruppo.


Note
1. S.v. «Antistene», AA.vv., L’Universale, Milano, Garzanti, 2005, p. 41.
2. Così, giustamente, L. Agnello chiama la lingua (riferendosi, e non impropriamente, ad Aristotele che chiamava il suo «noús» «eidós tón eidón», De anima 432 a 2). Cfr. L. Agnello, “Il problema del metalinguistico nel Kratylos di Platone”, (in: Lebendiger Realismus. Festschrift für Johannes Thynnes, hrsg. von Klaus Hartmann in Verbindung mit Hans Wag-ner, Bonn 1962), p. 29.
3. E. Coseriu, Das Phänomen der Sprache und das Daseinsverständnis des heutigen Menschen, Päd. Provinz. 21 (1967), p. 3 s.
4. E non sorprenda questo uso del metaforico per navigare nel labirinto della vita, quando perfino un teorico di altissimo livello come Leibniz affermava che le figure retoriche erano anche uno strumento di indagine filosofica. Cfr. C. Marras, Metaphora traslata voce. Prospettive metaforiche nella filosofia di G.W. Leibniz, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2010.
Cfr. K. Popper, Cattiva maestra televisione, Donizetti, Roma 1994: P. Breton, L’utopia della comunicazione,Utet, Torino, 1996; L. Sfez, Critique de la communication, Seuil, Paris 1990.
5. Vd. M. Ferraris, L’iPad platonico. La rivincita della scrittura, La Repubblica, Venerdì 21 Maggio 2010, pp. 48-49.
6. Ibidem.
7. In una lettera del Nuovo Testamento si legge che lo spirito vivifica e la lettera uccide. Si consideri anche che contrariamente al fatto che tutte le grandi religioni sono poi, in effetti, «religioni del libro», coloro che detenevano la competenza della scrittura, gli scribi, sono sempre stati visti male e considerati cattivi.
8. Sulle conoscenze e competenze nella Scuola Secondaria Superiore, venute fuori dalla Indicazioni Nazionali e dalle Linee guida per l’insegnamento (ultimamente pubblicate dal Ministero per l’Istruzione e la Ricerca), rimando all’interessante articolo di A.M. Di Falco, E. Marotta, “Conoscenze e competenze con la nuova secondaria”, in Scuolainsieme, anno XVI, n° 5, giugno-luglio 2010, Catania, La Tecnica della Scuola, pp. 42-45.

Nessun commento:

Posta un commento